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SICUREZZA.
MOLTEPLICITÀ DI DECLINAZIONI E DI APPROCCI DI INDAGINE

Quando si parla di sicurezza si usa un concetto che, soprattutto dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha acquisito centralità nelle dinamiche della politica internazionale, in concomitanza, a partire dai primi anni della Guerra fredda, con la rilevanza politica e culturale assunta dagli Stati Uniti. Concepire e perseguire politiche di sicurezza nazionale negli anni successivi al secondo conflitto mondiale ha garantito la possibilità di ovviare, da una parte, al fallimento dello strumento collettivo individuato, alla loro nascita, nelle Nazioni Unite e, dall’altra, al pericolo insito nel ricorso agli arsenali nucleari il cui utilizzo, dopo il 1949, poteva essere molto più facilmente minacciato che attuato. La necessità di escludere il ricorso alla guerra – e alla relativa militarizzazione della società, propria dei conflitti moderni e di massa – si è presto accompagnata all’esigenza di difendere interessi estesi ed espandibili non solo geograficamente ma anche in base al mutare delle condizioni economiche, politiche, sociali e tecnologiche ritenute meritevoli di protezione. Chiamare in causa la sicurezza, perciò, ha significato potere disporre di uno strumento duttile e omnicomprensivo, capace di evocare e mobilitare, senza dovere essere ancorato a un ambito specifico e predefinito di politiche e misure da adottare.
In sostanza, sicurezza è un concetto destinato a conservare in modo paradigmatico la sua natura di prodotto sociale, ovvero portatore di declinazioni e contenuti diversi, a loro volta estrinsecazione di dinamiche sistemiche traducibili e tradotte in agende politiche differenti. Non a caso nel periodo successivo al 1945 si è passati dall’invocazione della sicurezza collettiva a quella marcatamente nazionale, col suo corollario di blocchi contrapposti definiti anzitutto dalla centralità dell’elemento militare. Infatti, per circa un paio di decenni, sicurezza ha significato protezione dell’entità statuale da aggressioni/infiltrazioni esterne attraverso lo strumento militare. Tuttavia, prima ancora che la Guerra Fredda finisse, forze economiche, sociali e politiche, in cerca di agende politiche alternative a quelle fino allora dominanti, hanno stimolato i primi cambiamenti. Consapevolezze e sensibilità diverse hanno influenzato il discorso politico nazionale e internazionale con la conseguenza di fare emergere altre declinazioni di sicurezza come quella ambientale (e più tardi anche delle risorse) e quella energetica. Entrambe hanno beneficiato delle riflessioni sull’interdipendenza tipiche degli anni settanta, mettendo in risalto come una serie di fenomeni siano destinati a trascendere la dimensione statuale e non possano che essere affrontati attraverso azioni coordinate. Nonostante la rilevanza di tale trasformazione, nessuna delle suddette declinazioni ha segnato il definitivo depotenziamento dell’elemento Stato quale fulcro di qualsiasi concepimento o attuazione di politiche di sicurezza. Questa ulteriore evoluzione è arrivata con gli anni novanta, quando ha cominciato a farsi strada la presa di coscienza che sicurezza dell’individuo e dello Stato non sempre coincidono. I fattori che hanno contribuito a questo fondamentale mutamento del discorso sulla sicurezza sono molteplici. Fra i più rilevanti è certamente il tentativo delle Nazioni Unite di ritrovare un ruolo centrale dopo la fine della contrapposizione bipolare, interpretando, fuori da ogni tentazione ideologica marxiana, l’esigenza di popoli e popolazioni (specie dei continenti più poveri) di ottenere maggiori garanzie di sopravvivenza e di sviluppo materiale e morale.
La parziale perdita di centralità dello Stato nel discorso di sicurezza legato alla nascita della cosiddetta human security ha coinciso con il progressivo affermarsi di un’ulteriore traiettoria di cambiamento delle dinamiche internazionali. Essa si è concretizzata in fenomeni nuovi che, oltre a trascendere, implicitamente mettono in discussione la territorialità dello Stato-nazione come nel caso delle migrazioni di massa o della cosiddetta cyberwarfare. In maniera molto diversa, infatti, entrambi i fenomeni pongono una sfida sul piano dell’esercizio della sovranità territoriale come elemento imprescindibile delle politiche di sicurezza, producendo il cosiddetto processo di securitizzazione. In altre parole, attribuendo una valenza di problema di sicurezza a una serie di mutamenti economici, demografici, sociali, politici, tecnologici, l’attore statale cerca di riprendersi la centralità e la legittimazione che la difficoltà a elaborare risposte politiche complesse e coordinate, oltre che sovranazionali, gli hanno in parte sottratto.
Questa sintetica esposizione non vuole essere esaustiva; vuole solo offrire alcuni importanti elementi a dimostrazione della ricchezza di metodi e approcci di analisi con cui il concetto di sicurezza può essere avvicinato. Confrontarsi sui metodi oltre che sui contenuti può servire a sviluppare chiavi epistemologiche più complesse di quelle al momento disponibili e magari anche a trovare convergenze su progetti utili a elaborare un approccio originale su un tema certo rilevante e in evoluzione.

Coordinatore

Marilena Gala

(Università degli Studi Roma Tre)

Membri

David Burigana

(Università di Padova)

Benedetta Calandra

(Università di Bergamo)

Laura Fasanaro

(Università degli Studi Roma Tre)

Arrigo Pallotti

(Università di Bologna)

Angela Villani

(Università degli Studi di Messina)

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